L’ambiente in Costituzione, il gas, il ritorno del carbone, la crescita delle rinnovabili: le contraddizioni del post COP26 (e post Covid-19)

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Di Coopservice 7 marzo 2022

La tutela dell’ambiente e della biodiversità entra in Costituzione

Un segnale di impegno coerente. Poche settimane dopo che l’Italia ha giocato, forse per la prima volta, un vero ruolo di leadership internazionale condividendo la presidenza della Conferenza climatica mondiale di Glasgow (COP26) con la Gran Bretagna, la recente introduzione in Costituzione della tutela dell’ambiente, della diversità e degli ecosistemi rappresenta un punto di svolta per il nostro Paese.

Con un percorso insolito, una posizione di preminenza acquisita nella diplomazia internazionale viene trasferita nelle istituzioni e nel contesto giuridico nazionale, allineandoci in tal modo ad altri Paesi che già da anni prevedono la tutela ambientale tra i principi fondanti dello Stato, quali la Spagna (che l’ha inclusa dal 1978), la Germania e la Francia.

Intanto il mondo che si riaccende si riscopre dipendente dalle fonti inquinanti

Un segnale coerente, dunque. Giunto nel momento in cui, spenti i riflettori sulla Conferenza di Glasgow, il mondo riscopre di trovarsi ancora pesantemente nell’alveo del modello di sviluppo che ci ha condotto al limite estremo del non ritorno.
Perché se è vero che lo sviluppo delle energie rinnovabili pare finalmente avere spiccato il volo, il tentativo di riaccendere i motori dopo la pandemia ha messo il turbo al fabbisogno energetico.

Così accade che chi dispone delle fonti tradizionali sta alzando la posta, perfettamente consapevole della possibilità di trarre vantaggi e profitti da una dipendenza ancora lontana dall’essere superata: ad oggi le fonti fossili coprono ancora circa l’80% dei consumi globali di energia.

Il ruolo indispensabile del gas nella transizione energetica

Soprattutto, in attesa del pieno sviluppo tecnologico e dell’applicazione su vasta scala delle energie rinnovabili (solare, eolico, ma anche in prospettiva idrogeno e più in là fusione nucleare) appare sempre più evidente come alcuni fonti tradizionali, quali il gas naturale, assumeranno un ruolo irrinunciabile nella transizione energetica.

La stessa pericolosissima crisi ucraina in corso va letta anche sotto questo profilo.
Risultato: mentre tutto il mondo sembra finalmente proiettarsi verso la transizione ‘green’ a un futuro ‘pulito’, l’impennata del fabbisogno energetico ha fatto sì che il consumo ed i prezzi dei combustibili fossili abbiano raggiunto livelli senza precedenti.
Così come, inevitabilmente, le emissioni nocive generate dagli stessi.

La ripresa economica non trova ancora copertura nell’energia rinnovabile

Prendendo a riferimento la componente fondamentale dei sistemi energetici, l’energia elettrica, ammonta infatti a un +6% (oltre 1.500 terawattora) l’aumento della domanda globale di elettricità dello scorso anno: in termini assoluti, il più grande di sempre.

Ciò spiega come, seppur l’energia prodotta da fonti rinnovabili sia a sua volta cresciuta della stessa percentuale nel 2021, questo non sia bastato per tenere il passo di una domanda in forte incremento.

Da qui l’ulteriore crescita delle fonti tradizionali, in primis quelle maggiormente imputate dell’inquinamento globale: le difficoltà sulle forniture di gas naturale, con i prezzi alle stelle, hanno infatti riportato nientemeno che il carbone al centro delle politiche energetiche di diversi Paesi.

A volte ritornano: la crescita (momentanea?) del carbone

E così proprio la produzione di energia dal carbone (il combustibile più economico e, appunto, più inquinante) è cresciuta del 9%, coprendo più della metà dell’aumento della domanda e raggiungendo un nuovo picco assoluto, così come è cresciuta (anche se percentualmente di meno) la stessa produzione da gas naturale, oltre all’energia da fissione nucleare.

Morale: a dispetto degli impegni assunti le emissioni globali di anidride carbonica per la produzione di energia elettrica sono aumentate del 7% nel 2021, raggiungendo livelli record dopo essere diminuite nei due anni precedenti.

Niente ‘emissioni zero’ se l’elettrificazione non diventerà pulita

Uno scenario, dunque, in pericolosa controtendenza, nonostante la continua espansione delle rinnovabili.
Pericoloso perché l’elettrificazione pulita rappresenta la leva più importante per arrivare all’obiettivo ‘Emissioni nette zero’ entro il 2050: il comparto dell’elettricità ha infatti emesso nel 2020 il 36% di tutte le emissioni legate all’energia.

E proprio per questo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) stima che, per rispettare l’obiettivo dello zero netto, le emissioni di CO2 della generazione di elettricità dovranno diminuire del 55% entro il 2030.

Sta di fatto, però, che mentre alla COP26 di Glasgow i delegati si accapigliavano sul documento finale per decidere se scrivere ‘phasing-out’ (eliminazione progressiva) o ‘phasing-down’ (diminuzione) in riferimento all’uso del carbone, proprio la fonte fossile più inquinante continuava a viaggiare spedita verso nuovi primati.

I progressi delle rinnovabili secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia

Eppure i progressi nello sviluppo delle rinnovabili sono certificati dal report ‘Renewables 2021 market report’ della stessa AIE, il quale afferma che “il ricorso al solare, all’eolico e tutte le altre fonti rinnovabili sta accelerando come non era mai successo prima”: complessivamente si è trattato, per lo scorso anno, di una capacità aggiuntiva di energia verde di 290 gigawattora, 160 dei quali prodotti da impianti fotovoltaici.

E le previsioni di breve termine invitano all’ottimismo sulla possibilità di recupera-re il terreno perduto: nel 2026 la produzione di energia pulita nel mondo dovrebbe aumentare di oltre il 60% rispetto al 2020, arrivando complessivamente a 4.800 GW.

Il che vorrebbe dire che le rinnovabili costituiranno il 95% delle nuove fonti energetiche installate, più della metà delle quali rappresentate da impianti fotovoltaici.

Il bicchiere mezzo pieno della Conferenza sul clima di Glasgow

Una buona notizia? A metà. Perché in realtà tutto questo sarebbe ben al di sotto del necessario nel percorso globale verso le emissioni nette zero entro la metà del secolo, che, secondo le stime AIE, “richiederebbe una capacità aggiuntiva di energia rinnovabile, nel periodo 2021-26, quasi doppia rispetto al tasso di crescita previsto dal rapporto”.

Non c’è dubbio però che qualche segnale di svolta, almeno a livello previsionale, si intravede.

Così come è indubbio che la crescita abnorme dei prezzi dei combustibili fossili renda le rinnovabili più competitive.
Ma volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, anche i cori di delusione per i compromessi al ribasso della Cop 26 possono lasciare spazio a qualche fondato motivo di ottimismo.

Ad esempio, se è pur vero che per il carbone il ‘phase-out’ ha lasciato il posto ad un più morbido ‘phase-down’ è altrettanto indiscutibile che è la prima volta che in un documento dell’Onu si prefigura un percorso di superamento della principale fonte di emissione di gas serra.

Per ora ci affidiamo ai ‘Piani nazionali’ per la neutralità carbonica

Poi ci sono altri piccoli ma significativi segnali. Se a Glasgow nessuno si è azzardato a mettere in discussione l’obiettivo di contenere l’aumento di temperatura a +1,5° è da registrare, almeno a livello di intenzioni, un tentativo di accelerazione nel breve periodo rispetto ai tagli alle emissioni.

Ciascuno dei 197 Paesi si è infatti assunto l’impegno di presentarsi ogni anno, a partire dalla prossima COP, la Conferenza di Sharm el-Sheikh del 2022, con piani nazionali più ambiziosi per il 2030.

Si tratta dei cosiddetti ‘Nationally Determined Contributions (NDC)’ per la neutralità carbonica, cioè gli impegni concretamente presi dai singoli Paesi per arrivare alla condizione in cui si emettono tanti gas serra quanti se ne rimuovono dall’atmosfera.

La svolta necessaria: se anche oggi facessimo tutto l’obiettivo +1,5° sarebbe ancora lontano

Così come sempre a Glasgow sono da salutare positivamente i diversi accordi ‘settoriali’, cioè riguardanti aspetti specifici della lotta al riscaldamento climatico e stipulati non all’unanimità, ma tra vari gruppi di Stati.

Tali sono l’accordo di più di 100 Paesi contro la deforestazione, quello per la riduzione delle emissioni di metano (108 nazioni) e quello che prevede che tra il 2035 e il 2040 tutti i nuovi autoveicoli venduti saranno elettrici (non firmato però dai principali Paesi produttori di auto, come Germania, Giappone, Stati Uniti, Cina, Italia compresa).

Segnali di speranza, dunque, nella consapevolezza che il tempo a disposizione sta davvero terminando: le strategie stabilite finora, se integralmente attuate, permetterebbero soltanto di contenere l’aumento delle temperature medie globali tra 1,8 e 2,4 °C.
Con le conseguenti catastrofi di cui di certo le prossime generazioni non ci sarebbero grate.

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