Dialogo mai ascoltato, o forse invece sì, tra una pacifica manifestante e un uomo delle forze dell’ordine.

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Di Gloria Callarelli, 28 novembre 2021 261° giorno dell’anno 2 dell’era COVID-19 – domenica 

Veneto, ottobre 2021. L’era delle pandemie era appena cominciata, quello che i mass media avevano fatto nel 2020 alla popolazione mondiale era il più gigantesco lavaggio del cervello mai visto. Era l’anno della terza dose dei vaccini, l’anno in cui il lockdown, altrimenti detto confinamento, si cominciava timidamente a paventare come trattamento da riservare solo ai non inoculati. Sappiamo bene, poi, come è andata a finire. Sono qui a scrivere il mio diario, ripeto, proprio perché mi auguro che domani qualcuno possa leggere la verità di quanto accaduto. 

Mi trovavo in Veneto in quel periodo. Dopo essere stato a Roma e aver visto con i miei occhi gli scontri in piazza e dopo aver partecipato alle proteste di Trieste sono approdato nelle laguna veneta. Con un gruppo di tre fedeli resistenti abbiamo deciso che non potevamo non manifestare dove la narrazione Covid era stata da subito molto sentita e “divulgata”. Quel giorno il meteo era stato clemente con noi e il sole autunnale aveva fatto sì che ci fossimo potuti trovare in buon numero. Secondo me eravamo 500. Gli scontri di Roma, ma soprattutto l’attacco delle forze dell’ordine ai manifestanti seduti e immobili di Trieste, mi avevano lasciato l’amaro in bocca. Ricordo che da quel giorno la vista degli uomini in divisa mi provocava molta rabbia. Non riuscivo a capire come potessero essere così ciechi da obbedire ad ordini tanto ingiusti. Uomini e donne manganellati e cariche a gente ferma, che cantava, camminava con i bambini (perché i Valori si acquisiscono anche con esperienze fondanti e una marcia di pace in nome della libertà per il tuo paese lo è, senza dubbio)… gente che aveva avuto l’impudenza di chiedere di andare in piazza…Quella piazza della città dove di solito vai a leggere il giornale e a bere il caffè con gli amici, e che ora era blindata in uno scenario da Germania Est; una piazza che – burla della sorte – si chiama Piazza Unità d’Italia! E qui c’è il senso tragico e comico di tutto. Il pensiero mi faceva male ma di lì a poco un episodio lasciò il segno dentro me: non tutto era perduto. 

Parentesi. La nostra fino ad allora era stata una Repubblica Democratica dove la tutela di “Caino” era espressione altissima di una società matura che sa riconoscere il prossimo fin nei suoi cittadini “peggiori” quelli che le si mettono contro, che commettono reati anche aberranti perché lo Stato c’era e, seppur con falle ed errori, compiva il suo dovere. L’Italia era passata attraverso gli Anni di Piombo, la Guerra di Mafia, aveva perso figli illustri per mano di criminali, li avevamo pianti come figli, fratelli, sorelle, padri nostri ed eravamo orgogliosi di loro perché eravamo figli della stessa Patria; eravamo orgogliosi di quegli uomini e donne in divisa che sapevamo esserci per la nostra sicurezza, avevamo urlato la nostra vicinanza e 

solidarietà per gli affronti, le offese, lo svilimento della loro divisa e del loro lavoro: “Eravamo dalla parte delle forze dell’ordine senza se senza ma!” 

Scusate la digressione, capirete perché l’ho scritta. Ma torniamo a noi. Anche qui a Venezia avevamo “alzato” il tiro della protesta organizzando un corteo, fatto di canti e tamburi, sfociato poi nella consueta manifestazione. Quel giorno sei agenti delle forze dell’ordine ci accompagnavano, ci facevano ala tra la folla di turisti e gente comune, ci proteggevano da qualche gesto un po’ troppo ardito del corteo di tifosi della squadra di calcio provenienti in senso contrario al nostro. Ci liberarono di un facinoroso che minava la tranquillità della manifestazione. 

Tutto il contrario di Trieste. Ancora di più delusione e incredulità mi pervadevano: li guardavo sudare dentro quella loro divisa. Sguardo dritto, nemmeno una ruga d’espressione in quel viso, coperto, neanche a dirlo, dalla mascherina. Eppure quel giorno sembravano più teneri. Sembravano quasi essere dei “nostri”… e allora decisi di avvicinarmi a uno di loro. Uno di loro che aveva la mascherina leggermente abbassata sotto al naso e che vidi prodigarsi più di altri a far sì che la manifestazione funzionasse. Forse anche loro, tolta la divisa, potevano essere umani. Gli chiesi se mi permetteva di confidargli il pensiero che avevo in animo: 

“Io… devo chiedere scusa – balbettai – perché dopo i fatti di Trieste in particolare, ho provato per voi un profondo disprezzo e in un’esternazione vi ho definiti “Stronzi”. Mi dispiace perché mai in vita mia avrei pensato di disprezzare il mio Paese e voi che in un modo lo rappresentate. Poi ho riflettuto e ho pensato che forse…forse…ciò che dovete eseguire non sempre corrisponde a ciò che credete giusto e allora, prima di esprimere un giudizio come quello per il quale sinceramente mi scuso, Le chiedo: qual è il confine tra la coscienza e l’esecuzione di un ordine? Cos’è eseguire l’ordine di andare contro il popolo che per giuramento dovreste difendere? Cos’è eseguire di usare armi qualunque esse siano contro donne, bambini, anziani, uomini inermi, quelle persone che voi stessi distinguete per brava gente rispetto ai criminali perseguibili per legge? Perché per me è un corto circuito”. 

L’agente mi fece cenno di allontanarci un po’ alla ricerca di un briciolo di tranquillità in quel trambusto: “Io – cominciò- come cittadino non ho approvato e non approvo quello che hanno fatto a Trieste, è stato un uso spropositato della violenza”. Non era spedito nel parlare, si fermava, deglutiva. Era visibilmente sorpreso da questa conversazione. Non abbassò mai gli occhi. Riprese: “Io La ringrazio di questo suo pensiero e capisco la reazione anzi, ci sta tutta, ma io sono un agente e un ordine devo eseguirlo perché un procedimento disciplinare è duro, ti stronca…”. 

Lo interruppi: “Io questo lo capisco, però molti lavoratori, me compreso, stanno mettendo a repentaglio carriere e stipendi in nome di un valore che è alto ed è anche il suo e dei suoi figli se ne ha…”. 

“Lo so -replicò-ma se io mi metto a non eseguire un ordine…cosa faccio? Da solo decido di andare contro un ordine?…”. Lo guardo meglio in quegli occhi. Erano castani. Ora non è più sicuro si era incrinato qualcosa, c’era una fessura. Provai a entrarci: “E se foste tanti? Perché, mi chiedo, qual è il confine tra l’eseguire un ordine e la coscienza? Anche rispetto al giuramento fatto per indossare quella divisa. Perché sa cosa penso? Che quando chiederete solidarietà o di schierarsi dalla vostra parte a fronte di un’ingiustizia, ed è già successo, a chi la chiederete, alla gente che avete picchiato? Io penso, e mi spaventa, che questo porterà ad uno scollamento ancora più grave e a sentimenti contro di voi che non sono giusti e corretti e se io, che Le assicuro sono una persona tranquilla e riflessiva, arrivo a pensare di voi che siete “stronzi” è davvero preoccupante, e mi fa male averlo pensato e sono qua a chiedere scusa ma…” 

Forse avevo mosso qualcosa dentro di lui: “Io la ringrazio – mi interruppe lui questa volta – . Condivido e la sua paura è la mia perché il disprezzo della gente lo lasciano a noi che siamo in prima fila…sa qual è il problema? Che non siamo uniti, non riusciremo mai a guardarci negli occhi e a non eseguire un ordine tutti assieme perché poi ognuno pensa a sé, non alle conseguenze”. Prese fiato e concluse: “Uniti… forse … Bisognerebbe essere uniti…” 

Mi ringraziò di nuovo: un tentativo abortito di darci la mano (non era consono allo stato di servizio evidentemente) ma ne riconobbi il valore. La protesta quel giorno fu un successo, e le forze dell’ordine svolsero egregiamente il loro lavoro. Prima di partire incrociai di nuovo lo sguardo di quel poliziotto. Per un attimo si abbassò la mascherina e mi fece un cenno. 

Veneto, ottobre 2021: quello fu il primo gesto veramente umano che vidi in un agente delle forze dell’ordine alle manifestazioni. Capii che anche loro erano esseri umani. Capii che alcuni di loro potevano capirci e che anzi ci avrebbero presto capiti, e sono quelli che io chiamo “i coraggiosi ribelli”, capii che altri obbedivano e basta, forse per vigliaccheria o forse per convenienza o semplicemente per ricatto, e sono quelli che io chiamo “i soldatini” e capii che altri erano convinti di quello che stavano facendo. Questi li ho ribattezzati “i ciechi”. 

Non ho più rivisto quell’uomo. Ma so come è andata a finire in questo tempo. Chissà se ha fatto la sua scelta coraggiosa: chissà, oggi, da quale parte della barricata combatte. 

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