Di Guendalina Middei Cagliari, 31 luglio 2022 (QuotidianoWeb.it) – “Non vi è alcuna necessità di usare la parola “cashback” per “rimborso”, “recovery plan” per “piano di ripresa”, “green economy” per “economia verde”, o “droplet” per “gocciolina”», afferma il professor Jeffrey Earp, «La mia impressione è che talvolta gli italiani usino l’inglese più per mostrarsi colti, “moderni” o “internazionali”.
La questione linguistica è legata a una svalutazione del nostro paese, di tutto ciò che è italiano e quindi del nostro patrimonio linguistico, per questo gli italiani immettono nella loro lingua un numero sproporzionato di anglicismi, anche quando l’equivalente italiano suona meglio. In Spagna e in Francia, ad esempio, il numero di anglicismi è notevolmente minore rispetto all’Italia.
Tutte le lingue sono soggette a cambiamenti e si evolvono anche grazie all’apporto di forestierismi. Nel XIX secolo andava di moda tra le classi colte usare “francesismi”. E tantissime parole che oggi usiamo hanno un’origine straniera. Ad esempio la parola bistecca deriva dall’inglese beef-steak, costola di bue. C’è differenza però tra l’immettere un uso equilibrato di parole straniere, che arricchiscono la nostra lingua, a ciò che invece sta accadendo oggi. Rinunciando al nostro patrimonio linguistico, stiamo rinunciando alla nostra identità, limitandoci a diventare la brutta copia di un’altra cultura. E gli anglicismi vanno di pari passo con un altro problema: l’impoverimento linguistico.
Nel romanzo 1984 per ostacolare il pensiero, viene ridotto il numero delle parole. Se non esistono pensieri, non esistono pensieri critici. Quando i vocaboli si riducono, scompaiono anche i concetti astratti equivalenti. Il risultato? Un impoverimento emotivo oltre che linguistico. Il congiuntivo ad esempio non viene più usato. Il congiuntivo esprime una situazione ipotetica, serve per formulare delle ipotesi. Pensare e parlare utilizzando sempre e soltanto l’indicativo, induce a ragionare soltanto in termini di certezze, a eliminare le supposizioni e i dubbi dal nostro modus mentale. E le implicazioni di ciò non possono che essere disastrose.
Il linguaggio non deve essere ampolloso o retorico ma “ricco” per poter cogliere tutte le sfumature dei sentimenti ed esprimere concetti che non possono essere semplificati, come invece accade fin troppo spesso. Prendendo in mano un giornale ci si rende conto con tristezza di come il linguaggio sia scaduto. La cosiddetta sinteticità, tanto osannata in ambito giornalistico, ha comportato una banalizzazione di questioni complesse: si scrive e si pensa in termini di bianco o nero e ciò esclude a priori tutte quelle complessità, quelle sfumature che non si prestano a essere racchiuse in poche righe. I testi non sono soltanto scritti male ma adottano un linguaggio infantile, offensivo per la scarsa considerazione che dimostrano di avere nei confronti del lettore medio.
L’impoverimento linguistico si riscontra soprattutto nei giovanissimi. All’incapacità di articolare pensieri complessi si accompagna una banalizzazione delle emozioni. Ci sono molteplici sfumature dietro l’espressione “sto bene”; lo stare bene può significare gioia, allegria, contentezza, soddisfazione, letizia, esultanza, giubilo, così come “lo stare male” racchiude tanti sentimenti diversi come la tristezza, la malinconia, l’angoscia, la nostalgia. Questo “analfabetismo emotivo” è sempre più diffuso e purtroppo si associa a una crescente vulnerabilità sociale.
Le parole sono l’arma più potente che abbiamo, sono il mezzo attraverso il quale comunichiamo i nostri sentimenti, i nostri pensieri, con cui diamo un nome alle nostre paure, alle nostre sensazioni, ai nostri dubbi. Come possiamo comunicare e incidere sulla realtà, se non abbiamo parole per tradurre i nostri pensieri? Come possiamo far valere la nostra voce, se la nostra voce è muta perché non ha parole dalle quali attingere? Che cosa possiamo fare? Evitare inutili anglicismi, privilegiare giornali che proteggono la qualità dei loro scritti, leggere, leggere tanto perché la letteratura è il nutrimento della psiche e concederci il tempo necessario perché alcune cose hanno bisogno del loro tempo, tempo per essere spiegate, apprese, assaporate, interiorizzate.
L’ignoranza è un merito?
A Roma sono tornati i roghi dei libri. Poche settimane fa è stata incendiata in piazza Flaminio, volutamente ci tengo a precisare, una storica bancarella di libri. Grazie alla tenacia del proprietario Alberto Maccaroni e alla mobilitazione della gente, la “Bancarella del Professore” ha riaperto al pubblico. È stato un atto vandalico, l’ennesimo, di chi trova divertente sputare addosso alla cultura.
Ma come siamo arrivati a questo? Ecco cosa ci si dovrebbe domandare. Certo, questo è stato un caso isolato, oggi non bruciamo i libri, non li leggiamo e basta. Gli italiani non leggono, sei italiani su dieci non leggono nemmeno un libro all’anno, è quanto riporta l’Istat. Obietteranno alcuni: in questi tempi moderni chi ha tempo per leggere? Sbagliato, nel resto d’Europa la percentuale dei lettori è superiore al 75%, questo primato, questo disinteresse per la cultura è tutto italiano, ma non c’è da esserne fieri. La politica del resto ha smesso d’interessarsi e di investire nella cultura.
“Un paese che distrugge la sua scuola non lo fa mai solo per soldi, perché le risorse mancano o i costi sono eccessivi. Un paese che demolisce l’istruzione è già governato da quelli che dalla diffusione del sapere hanno solo da perdere”: era Italo Calvino ad affermarlo, qualche decennio fa, ma quanti giovani oggi sanno davvero chi sia Calvino? Quanti l’hanno letto? Gli italiani non leggono, e aggiungo gli italiani non pensano. Dove s’informano allora? Dove maturano idee, riflessioni, opinioni? In televisione ovviamente.
Ma la televisione è l’antitesi della riflessione. Leggendo, è la mente del lettore che, come un delicato e sensibile orologio accordato ai moti interiori dell’anima, stabilisce il tempo e la velocità della lettura, decide quando rallentare e quando soffermarsi su un determinato passaggio, e nel frattempo dialoga, confuta e medita su ciò che legge. Leggere è far scaturire da un pensiero letto, altri pensieri che a loro volta si ramificano in infinite riflessioni. Ciò non è possibile con la televisione o con la visione di un film: non si può attivare questa riflessione interiore senza perdere il passaggio successivo. La lettura come pratica sta scomparendo, pochi ormai hanno l’attitudine mentale per assaporare, gustarne la bellezza ma anche l’impegno, la dedizione che richiede, ben diversa dalla rapida fruibilità dei prodotti televisivi.
Ecco allora che ci si limita ad assorbire in modo passivo ciò che si “vede”. I bambini fin da piccoli, drogati di programmi spazzatura, vengono educati ad assorbire ciò che la televisione veicola e proietta. E la passività conduce inevitabilmente all’indifferenza, all’abulia, che sono l’antitesi della lotta e della presa di coscienza. Leggete dunque e ricordate che l’esempio è la miglior forma di insegnamento, i bambini e i giovani apprendono per imitazione, fatevi vedere con un libro in mano al posto dello smartphone.