C’è una guerra che non fa esplodere ordigni, non riempie i notiziari di immagini drammatiche, ma che lascia dietro di sé macerie umane, economiche e culturali. È una guerra subdola, silenziosa, travestita da progresso, da ecologia, da burocrazia. Una guerra condotta con penne, decreti e verbali, ma non per questo meno violenta. Anzi, lo è forse di più, perché si insinua nei meccanismi invisibili della vita quotidiana, dove l’oppressione si chiama “adeguamento normativo” e la distruzione si presenta sotto la maschera del “piano strategico”.
È nei palazzi del potere che si combatte oggi questa guerra: nei ministeri, nelle stanze dei consulenti che non hanno mai toccato la terra con una mano, nei corridoi delle istituzioni europee dove l’agricoltura viene trattata come un fastidio da regolare, ridurre, infine cancellare. E il nemico, questa volta, non sono eserciti stranieri o forze armate ribelli. Il nemico è chi ha scelto scientemente di rendere la vita dell’agricoltore un inferno fatto di scadenze impossibili, di documenti incomprensibili, di investimenti insostenibili e controlli umilianti.
Ogni nuova direttiva che limita l’uso dell’acqua. Ogni tassa che colpisce chi semina. Ogni vincolo che proibisce di costruire una stalla o usare un vecchio trattore. Ogni ispezione che si conclude con una multa, un blocco, una revoca. Tutto questo ha un fine ben preciso: rendere impossibile coltivare la terra. Rendere il lavoro nei campi una scelta folle. Rendere la produzione agricola una perdita certa.
È la guerra contro la libertà. Perché un popolo che coltiva la propria terra è un popolo che può sopravvivere da solo. Ma un popolo senza contadini, senza campi, senza sementi, è un popolo che dovrà inginocchiarsi davanti a chi fornisce il cibo. È così che si costruisce il nuovo ordine: eliminando la base della civiltà, che da sempre è la terra coltivata.
E mentre i politici parlano di sostenibilità, la vera sostenibilità, quella dell’agricoltura locale, stagionale, indipendente, viene sacrificata sull’altare dei grandi interessi globali. E chi resiste viene schiacciato, zittito, spinto alla resa.
Alex Krainer, analista indipendente e voce sempre più ascoltata fuori dal coro, l’ha detto chiaramente: “La guerra contro gli agricoltori comprende una serie di misure amministrative e normative volte a rendere l’agricoltura non redditizia, scoraggiando gli agricoltori dal produrre cibo e costringendoli a vendere le loro aziende agricole”.
Non è un’esagerazione. Sta succedendo sotto i nostri occhi. Con il pretesto della sostenibilità, della neutralità climatica, dell’agenda verde, si impongono limiti che colpiscono solo i piccoli e medi produttori. Tagli ai fertilizzanti, limiti all’allevamento, tasse sull’acqua, normative sui trattori. Ma i grandi gruppi agroindustriali? Loro no. Loro sopravvivono. Anzi, comprano le terre svendute da chi non ce la fa più.
Per fare qualche esempio in Europa, tra il 2005 e il 2020 sono scomparse più di 4 milioni di aziende agricole (fonte: Eurostat). Ogni anno chiudono i battenti decine di migliaia di piccole e medie realtà, incapaci di reggere il peso di normative sempre più stringenti e di una concorrenza globalizzata e spesso sleale.
In Italia, dal 2000 ad oggi, è scomparso oltre il 30% delle aziende agricole. Campi abbandonati, stalle vuote, giovani scoraggiati.
Per non parlare della redditività sottozero per oggi come oggi, il reddito medio di un agricoltore europeo è inferiore del 40% rispetto a quello di un lavoratore urbano. In alcuni Paesi dell’Est Europa, un agricoltore guadagna meno di 600 euro al mese, pur lavorando 10-12 ore al giorno, 7 giorni su 7.
I costi imposti dai regolamenti UE sul “Green Deal”, come la riduzione obbligatoria dei fertilizzanti, i vincoli sull’uso di pesticidi e i target per la “neutralità climatica”, fanno schizzare i costi di produzione, rendendo molte colture non più sostenibili economicamente.
Ci stanno portando verso l’abisso. È in atto un disegno inquietante, che qualcuno già chiama “l’agenda dello zero assoluto”: zero coltivatori autonomi, zero produzione locale, zero indipendenza alimentare. In questo mondo nuovo che ci stanno costruendo, il cibo non sarà più diritto, ma privilegio. E chi controlla il cibo, controlla le persone.
I segnali ci sono tutti. I campi che chiudono. I giovani che non tornano alla terra. I suicidi silenziosi degli agricoltori strozzati dai debiti. L’indifferenza di una società che non si rende conto che, senza agricoltori, non ci sarà futuro. Né pane, né latte, né dignità.
È ora di svegliarsi. Di dire no a un’agricoltura senza agricoltori. Di ribellarsi a chi vuole svuotare le campagne per riempire le città di cibo sintetico e dipendenza. Non è un problema solo degli agricoltori. È un problema di tutti. Perché ogni morso di pane, ogni sorso di vino, ogni frutto che mettiamo sulla tavola viene da lì, da chi ogni giorno lotta con la terra, il clima, e ora anche con lo Stato.
Difendere chi coltiva significa difendere la libertà. La nostra sovranità alimentare. La nostra sopravvivenza.
E allora diciamolo chiaro, con forza: questa guerra deve finire. Ora.